L'anno della vita religiosa, di Enzo Bianchi

RIFLESSIONI - Papa Francesco ha proclamato il 2015 “anno della vita religiosa”: una scelta forse attesa dopo l'anno della vita sacerdotale indetto da papa Benedetto e che dovrebbe animare un anno dedicato alla maggiore consapevolezza del dono che la vita religiosa rappresenta per la chiesa, della sua portata carismatica nella comunità cristiana e nella compagnia degli uomini, un tempo di fervente intercessione perché il Signore rinnovi questa forma di vita alla sequela di Gesù. Ma nonostante i messaggi di papa Francesco a quanti vivono la sequela di Cristo nel celibato e nella vita comune, nonostante qualche vescovo abbia indetto una giornata per quel “piccolo resto” presente nella sua chiesa locale, ormai l'anno volge al termine e pochi paiono essersene accorti, non solo nel mondo, ma tra gli stessi cattolici.
Questo dato suscita in me un'infinita tristezza perché, avendo scelto in gioventù questa vita – spero in risposta a una chiamata del Signore – e avendo vissuto in essa per cinquant'anni, fino alla vecchiaia, devo ora costatarne la profonda crisi. Una crisi che io stesso, cercando di leggerla con speranza, ho definito crisi pasquale, ma nella quale oggi vedo con difficoltà un orizzonte di rinascita. E ciò che più mi angustia è l'indifferenza con cui si assiste a questa “diminutio”, se non dissolvenza.
È significativo che nemmeno il sinodo che si sta per celebrare abbia pensato di fare un cenno nell'Instrumentum laboris al celibato per il regno di Dio e alla forma vitae che ha generato nella chiesa: com'è possibile parlare del matrimonio cristiano e della famiglia senza una riflessione sull'annuncio che Gesù ha fatto del celibato in vista del regno? I padri della chiesa – e in questo l'ortodossia ne è tuttora fedele interprete – non hanno mai isolato il matrimonio dal celibato cristiano perché i due si illuminano a vicenda, come testimoniano le stesse parole di Gesù nei vangeli e la predicazione di san Paolo.
Ma cosa sta succedendo nella vita religiosa, visto che nemmeno essa vive in modo convinto quest'anno che la riguarda? Sono impressionanti il silenzio, la disillusione, la stanchezza, l'inerzia di molti appartenenti a questa vita che sembra aver perso il suo sapore e la capacità di segni profetici. Perché siamo passati dall'abbondanza non solo di vocazioni ma di iniziative e diaconie di quarant'anni fa all'attuale “miseria”? Più volte ho ripetuto che la crisi attuale della vita religiosa non è di ordine morale – forse mai come oggi negli ultimi secoli la stragrande maggioranza dei religiosi sono fedeli ai voti professati – bensì di ordine umano.
Poi, paradossalmente, in questa situazione di povertà assistiamo al sorgere un po' ovunque di iniziative di vita religiosa dove uomini e donne usciti dalle comunità in cui avevano emesso i voti, intraprendono cammini particolari a due o a tre, in una fusionalità e con legami malsani così ben stigmatizzati già da san Benedetto nel primo capitolo della sua regola. Una vita consacrata “fai da te”, chiusa “nei propri ovili e non in quelli del Signore” (RB 1,8), sottratta a ogni vigilanza esterna autorevole: energie sperperate e vite attraversate da sofferenze verso le quali sovente manca attenzione e prudenza da parte di vescovi che, nell'accogliere queste “avventure”, paiono preoccupati solo di riempire case e chiese abbandonate e deserte.
Del resto problemi vitali apparentemente opposti accomunano le comunità tradizionali alle nuove: le prime diminuiscono per età e mancanza di vocazioni, e i loro membri non vogliono più sentire domande sul loro futuro perché da decenni si accontentano ripetere formule di rinnovamento la cui attuazione si fonda sull'illusione e non sulla fede. D'altro canto la repentina vitalità di molte nuove forme è sovente contraddetta da scandali devastanti sul piano umano prima ancora che religioso.
Così la vita religiosa muore e la si aiuta a morire. Ognuno però si assuma le proprie responsabilità perché in un'epoca in cui le persone sono fragili e le sequele contraddette, in cui i legami vengono meno e l'appartenenza diventa affettiva e non più comunitaria, occorrerebbe un richiamo alla “fortezza”, alla coerenza, alla perseveranza ai voti, all'oggettività di una vita comune non soggetta a personalismi. Una vita religiosa, cioè, radicata nella chiesa locale, sotto la vigilanza del vescovo o dell'autorità della congregazione, una vita trasparente che, senza cercare di essere ammirata, sia presente nel tessuto ecclesiale e sociale.
Crisi pasquale, quindi, o scomparsa, dolce morte nel silenzio generale? Eppure un resto rimarrà: se anche la vita religiosa fosse ridotta a un ceppo, ma quel ceppo sarà santo, allora sarà capace di offrire ancora qualche nuovo virgulto.
Enzo Bianchi
Fonte: monasterodibose.it, 15/08/2015

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