Salute: Nasce l'infermiere di FAMIGLIA/COMUNITA'


Con il decreto Rilancio in Gazzetta Ufficiale, l’infermiere di famiglia/comunità è legge.
Ora però va chiarito bene cosa è, cosa non è e quali sono le potenzialità di questa figura, che di fatto esiste da anni, ma che ora andrà codificata, organizzata, normata e formata in tutte le Regioni.

Non bisogna fare confusioni, né tantomeno strumentalizzazioni di questa opportunità data alla professione per affermare due principi fondamentali: l’importanza e l’essenzialità dell’infermiere sul territorio; la necessità ormai evidente di percorsi di specializzazione che riconoscano determinate caratteristiche e peculiarità
L’infermiere di famiglia e comunità è un professionista responsabile dei processi infermieristici in ambito familiare e di comunità, con conoscenze e competenze specialistiche nelle cure primarie e sanità pubblica.
Il suo ruolo è quello di promuovere salute, prevenzione e gestire nelle reti multiprofessionali i processi di salute individuali, familiari e della comunità all’interno del sistema delle cure primarie.

Risponde ai bisogni di salute della popolazione di uno specifico ambito territoriale di riferimento (distretto) non erogando solo assistenza, ma attivandola e stabilendo con le persone e le comunità rapporti affettivi, emotivi e legami solidaristici che diventano parte stessa della presa in carico.
L’infermiere di famiglia e comunità svolge attività trasversali per accrescere l’integrazione e l’attivazione tra i vari operatori sanitari e sociali e le risorse sul territorio utili a risolvere i problemi legati ai bisogni di salute

Non è l’assistente di studio del medico di medicina generale, non è ‘assunto’ da questo, né toglie nulla delle prerogative di diagnosi e cura al medico di famiglia, ma è una figura professionale che insieme ad altre figure professionali forma la rete integrata territoriale, prende in carico in modo autonomo la famiglia, la collettività e il singolo. 

Ha un ruolo anche proattivo per promuovere salute, educazione sanitaria per la persona sana e la famiglia e la comunità e insegna l’adozione di corretti stili di vita e di comportamenti adeguati. Si tratta di formare équipe multiprofessionali che condividano il più possibile lo stesso nucleo di assistiti dove c’è ovviamente il medico di famiglia il pediatra di famiglia, ma anche gli assistenti sociali, con i quali gli infermieri condividono molto a livello di attività territoriale quando assistono fragilità e disabilità, gli psicologi, e altre figure professionali come i fisioterapisti, i logopedisti. Tutti a domicilio con un meccanismo di coordinamento professionale che è una sorta di adattamento reciproco tra professioni. E tutto questo si porta dietro anche modalità di assistenza come la telemedicina, la teleassistenza, il telenursing: la vera innovazione è la capacità di guardare attraverso punti di vista diversi i bisogni dei nostri cittadini.

È esattamente la figura che recentemente l’OCSE ha descritto in suo rapporto sulle cure territoriali, affermando che il futuro delle cure primarie dovrà essere basato su team multiprofessionali composti da medici, infermieri, farmacisti e operatori sanitari della comunità, dotati di tecnologia digitale e perfettamente integrati con servizi di assistenza specializzati e che secondo l’OCSE potrebbe evitare che in Italia 1 ricovero su 5 in Pronto soccorso sia inappropriato.

Introdotto ufficialmente con il Patto per la salute e confermato per legge nel decreto Rilancio, l’infermiere di famiglia e comunità è ciò che i cittadini chiedono: 
secondo una ricerca CENSIS-FNOPI presentata a giugno il 91,4% degli italiani (il 95,1% delle persone con patologie croniche, il 92,6% dei cittadini nel Sud) ritiene l’infermiere di famiglia e di comunità una soluzione per potenziare le terapie domiciliari e riabilitative e la sanità di territorio, fornendo così l’assistenza necessaria alle persone non autosufficienti e con malattie croniche.

Attraverso il lavoro di rete, che non può essere definito solo come un metodo di lavoro, ma come un modo d’essere degli operatori, l’infermiere di famiglia e comunità assieme agli altri professionisti coglie le risorse, le potenzialità del paziente, della famiglia, della comunità e dei servizi istituzionali sanitari e sociali, pone al centro la persona con i suoi reali bisogni e mette in rete tutte le forze, i mezzi, le strategie necessarie per offrire una risposta il più possibile vicina alle reali necessità e desiderata del paziente stesso. Così facendo il paziente, le persone significative per lui e tutti i professionisti riflettono e cercano insieme le giuste soluzioni per quella data situazione. 

In questo modo il paziente diventa il vero protagonista del proprio progetto di salute e non delega agli altri la cura di se stesso, anzi con gli opportuni strumenti e conoscenze che l’infermiere e i diversi professionisti gli offrono diventa “operatore” di se stesso. Inoltre, mobilita i potenziali di cura che ci sono nei pazienti, nelle famiglie e nelle comunità. È il professionista che facilita il processo di cura, che aiuta e accompagna un’altra persona a promuovere la sua salute e il suo sviluppo.

La sua formazione è a livello universitario, in percorsi post-laurea (Laurea Magistrale, Dottorato, Master di I Livello e di II livello), superando, appunto, il modello prestazionale e dando spazio a nuovi modelli di prossimità e proattività che anticipano anche il bisogno di salute e sono rivolti a sani e malati.

La sua preparazione prevede anche ruoli complementari come il care manager, eHealth monitoring ecc. per dare forte sviluppo alla rete sociosanitaria, con la possibilità di agire in differenti ambiti (dall’ambulatorio al domicilio) con funzioni multiprofessionali in raccordo diretto con il medico di medicina generale, il pediatra di libera scelta, gli assistenti sociali e così via.

Dove è già attivo (in Friuli Venezia Giulia ad esempio dove lo è dal 2004, ma così si sta rivelando anche in Toscana e in altre Regioni dove la sua attivazione ha già preso piede prima dell’introduzione nel Patto, sono rilevanti a partire da una  risposta immediata alle esigenze della popolazione, che si rivolge al servizio di Pronto Soccorso in modo più appropriato (in un triennio il Friuli VG ha ridotto i codici bianchi di circa il 20%). Poi anche una riduzione dei ricoveri (agisce prima che l’evento acuto si manifesti) e del tasso di ospedalizzazione del 10% rispetto a dove è presente la normale assistenza domiciliare integrata. Dove c’è, si registra anche la riduzione dei tempi di percorrenza sul totale delle ore di attività assistenziale, passata anche dal 33% al 20% in tre anni, con un importante recupero del tempo assistenziale da dedicare ad attività ad alta integrazione sociosanitaria.





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