“Samaritanus bonus” lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede “Inguaribile non è mai sinonimo di incurabile”
Questa mattina alle ore 11:30, presso l'Aula "Giovanni Paolo II" della Sala Stampa della Santa Sede, durante la Conferenza Stampa è stata presentata la Lettera "Samaritanus bonus" sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, redatta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.
La lettera della Congregazione per la Dottrina della fede approvata dal Papa, ribadisce la condanna verso ogni forma eutanasica e di suicidio assistito tenendo presenti i casi degli ultimi anni. Il sostegno alle famiglie e agli operatori sanitari. L'importanza dell'accompagnamento e prendersi cura dell'altro; essere presenza di speranza
L'intero documento è incentrato sul senso del dolore e della sofferenza alla luce del Vangelo e del sacrificio di Gesù: “il dolore è sopportabile esistenzialmente soltanto laddove c’è la speranza” e la speranza che Cristo trasmette al sofferente è “quella della sua presenza della sua reale vicinanza”. Le cure palliative non bastano “se non c’è nessuno che ‘sta’ accanto al malato e gli testimonia il suo valore unico e irripetibile”.
Sono intervenuti:
l’Em.mo Card. Luis Francisco Ladaria Ferrer, S.I., Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; S.E. Mons. Giacomo Morandi, Segretario della medesima Congregazione; la Prof.ssa Gabriella Gambino, Sotto-Segretario del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita; e il Prof. Adriano Pessina, Membro del Direttivo della Pontificia Accademia per la Vita.
[...] Il Documento, presentato all’attenzione del Santo Padre e da Lui approvato in data 25 giugno 2020, reca dunque il titolo di Samaritanus bonus. Sono stati scelti il genere letterario della Lettera e la data del 14 luglio 2020, memoria liturgica di San Camillo de Lellis (1550-1614).
Nel XVI secolo – epoca in cui è vissuto il nostro Santo - gli incurabili venivano per lo più consegnati a mercenari; alcuni di essi, delinquenti, venivano costretti a quel lavoro con la forza; altri si rassegnavano a quest’opera, per non aver avuto diversa possibilità di guadagno. Camillo volle “uomini nuovi per una assistenza nuova”. E un pensiero fisso lo aveva afferrato: sostituire i mercenari con persone disposte a stare con i malati solo per amore. Desiderava avere con sé gente che “non per mercede, ma volontariamente e per amore d’Iddio li servissero con quell’amorevolezza che sogliono fare le madri verso i propri figli infermi”[...] Card. Luis F. Ladaria Ferrer, S.I.
[...] Il Buon Samaritano è, allora, una figura teologica e antropologica capace di ripristinare uno sguardo umano. È lo sguardo consapevole di chi non confonde il concetto di inguaribile con il concetto di incurabile. Lo sguardo di chi non usa del criterio della “qualità” per abbandonare la persona alla sua disperazione sapendo riconoscere, invece, una qualità intrinseca all’uomo stesso: quella “qualità” che in termini laici si chiama dignità della vita umana e in termini cristiani sacralità della vita umana [...]
[...] Questa Lettera ci ricorda che il Dio che resta fedele all’uomo, rappresentato dal Buon Samaritano, e lo salva, è lo stesso Dio che ha vissuto l’esperienza della sofferenza, dell’abbandono, dell’incomprensione, della morte: Egli sa di che cosa si tratta, non è un semplice “osservatore” della condizione umana. Ma, inchiodato su un legno di condanna e di tortura - che sembra evocare quell’uso sproporzionato della tecnologia che inchioda i pazienti; deriso da chi non lo capisce; abbandonato da chi non ha avuto il coraggio di partecipare alle sue sofferenze – Egli conserva la sua fiducia nella fedeltà del Padre e nell’amore straziante della madre che sta sotto la croce con i discepoli fedeli. Stabat Mater: quando non si può fare nulla si può, però, stare accanto a chi soffre. Una scena corale, quello della Croce, in cui si riassumono i conflitti teorici e esistenziali che circondano le fasi terminali della vita.
Ebbene, penso che in questa società secolarizzata in cui molte persone muoiono da sole e desiderano e chiedono la morte come rimedio al peso della vita, si possano trovare elementi di riflessioni sull’importanza di stare accanto ai morenti e ai sofferenti.
Non dimentichiamo, a ogni modo, che la solitudine del malato è anche spesso la solitudine di chi si prende cura di lui. E questa Lettera, inoltre, introduce il concetto di comunità sanante, una bella intuizione che dà voce a tutta la centralità delle relazioni messe in evidenza dall’antropologia contemporanea, eppure non sufficientemente praticata all'interno degli attuali processi di cura e di assistenza.
Una comunità sanante dovrebbe esprimere, perciò, la duplice dimensione del prendersi cura sia del malato sia di chi lo accudisce. Prof. Adriano Pessina
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